La Schlein contro Giorgia e le strade impervie del Pd

di Alessandro Campi
Martedì 30 Aprile 2024, 23:30 - Ultimo agg. 1 Maggio, 09:58
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Giorgia Meloni è una Elly Schlein che ce l’ha fatta. Nel senso che è riuscita a candidarsi capolista alleEuropee in tutte le circoscrizioni per il suo partito, laddove la segretaria del Pd ha dovuto rinunciare al suo disegno di correre “faccia a faccia” contro la leader di Fratelli d’Italia, mettendo anche il suo nome sul simbolo, e accontentarsi, per così dire, di figurare come prima candidata solo nella circoscrizione dell’Italia centrale e in quella che comprende Sicilia e Sardegna. Se l’intenzione della Schlein era insomma di personalizzare lo scontro elettorale secondo un facile schema “donna progressista contro donna conservatrice”, tagliando così fuori il suo competitore di sinistra Giuseppe Conte, il fatto che essa sia stata frustrata dai suoi oppositori interni – non certo frenata da un qualche scrupolo di coscienza o da una forma di sacro rispetto nei confronti degli elettori – non fa che gettare un velo di malcelata ipocrisia, condita persino d’una punta d’invidia, sull’accusa che ora rivolge alla Meloni di nascondere il nulla ideologico dietro il suo nome esibito comemotto elettorale. La destra ha un capo, la sinistra post-comunista non riesce più a darselo, ma non è una differenza di cultura o sensibilità politica, come si dice, o peggio di antropologia: il conformismo intriso di spirito gerarchico della prima contro l’egualitarismo impregnato di gusto della libertà della seconda. Contano di più le contingenze o gli accidenti della storia recente.

Nella lunga tradizione del comunismo italico la personificazione fisica della funzione di comando (espressione riconducibile ad Antonio Gramsci) in realtà non è mai stata un tabù. L’importante era che tale personificazione fosse funzionale al rapporto che il capo (da Togliatti a Berlinguer) era in grado di intrattenere con il gruppo sociale del quale rappresentava organicamente gli interessi. A partire, va da sé, dalla classe lavoratrice. Venuto meno quel legame, sociale e ideologico, col passaggio epocale dal comunismo al progressismo, dalla difesa dei diritti sociali alla battaglia su quelli individuali, il tema del capo è stato tradotto a sinistra, specie dopo l’affacciarsi sulla scena di Silvio Berlusconi, un innesto di iper-modernismo politico-comunicativo scambiato per una forma di restaurazione, in termini puramente polemico-propagandistici: come autoritarismo latente, deriva plebiscitaria o spirito padronale.

Ciò non toglie che quello del Pd – da Walter Veltroni a Elly Schlein – resti comunque, neifatti e al di là delle dichiarazioni ufficiali, un caso interessante di personalismo tentato ma continuamente interrotto o frustrato. Sin dalla sua nascita, quel partito ha in realtà cercato di darsi una guida che fosse riconosciuta come tale in senso politico, e fosse non soltanto un mediatore o garante tra gruppi interni e correnti. Uncapo politico, non un segretario in senso burocratico. Loha impedito, come ènoto, la sua genesi eterodossa e contraddittoria, meccanica e artificiosa. L’incontro strumentale tra nomenclature diverse per storie e valoriha infatti inibito ognitentativo di dare vita a una leadership del Partito democratico unitaria e stabile. Chi ci ha provato con più forza, Matteo Renzi, non a caso è stato brutalmente rigettato alla stregua di un corpo estraneo. A compensazione di questa difficoltà, divenuta a sinistra ormai strutturale e non priva di tratti autolesionistici, vista la tendenza al personalismo dell’odierna politica di massa, ci si accontenta di prendersela con la destra e la sua pericolosa fascinazione per il ruolo demiurgico del capo cosiddetto carismatico.

Sino a confondere colpevolmente il leaderismo democratico col ducismo autocratico e ad assumere i toni predicatori di chi pretende di spiegare al prossimo, avversari compresi, quale sia il modo giusto di comportarsi.

Dimenticando, così facendo, che i partiti sono strutture autocefale. Fanno, in modo del tutto giusto e legittimo, ciò che credono sia la loro convenienza politica ed elettorale, non quello che conviene agli avversari che li criticano. È così da sempre. Tutto il resto è moralismo a buon mercato, anche se ammantato di richiamo ai valori. VotareGiorgia Meloni, si sostiene, significherebbe votare per qualcuno che non siederà mai sui banchi di Bruxelles. Ma non si capisce dove stia l’inganno, o l’immoralità, di una simile scelta visto che gli elettori sanno benissimo come stanno le cose. Così come appare tempo perso la discussione sulla percorribilità legale di far scrivere il proprio nome, invece del cognome, sulla scheda elettorale. Per due giorni si è discussa in termini formalistici una scelta prettamente dettata da ragioni politiche, avere molti voti in Italia per contare di più in Europa, salvo dover concludere che quella che alla fine conta, per diritto e prassi, è da sempre la volontà manifesta dell’elettore.

Naturalmente non mancano rischi nella scelta di Giorgia Meloni di spingere così tanto sul pedale della personalizzazione. Ma sono diversi da quelli pigramente adombrati. Ad esempio, lo scivolamento verso il ducismo militaresco tipico del fascismo storico. Quando in realtà nella visione di Giorgia Meloni conta molto più la suggestione culturale dell’eroe solitario che combatte contro tutti forte delle sue credenze ideali, secondo uno stilema tipico della narrativa fantasy sulla quale si è formata. La storia infinita di Ende, non il Mein Kampf. Sono cose che si sanno, ma per amore di polemica si preferisce sempre evocare i fantasmi. C’è anche, in questa scelta a proporsi come capofila della battaglia europea,la retorica a lei cara (e sin qui rivelatasi abbastanza efficace sul piano del consenso) della ragazza del popolo che si è conquistata con le sue sole forze le posizioni raggiunte.

La volontà del singolo contro un mondo avverso. Può non piacere come visione della vita, la stessa per inciso che animava Margaret Thatcher quando ricordava il suo essersi fatta da sola con determinazione e pignoleria, ma ancora una volta il fascismo c’entra poco: è desiderio di autoaffermazione, un impulso in sé democratico e liberale, non spirito di sopraffazione. Se proprio si vuole vedere un rischio in quest’eccesso di protagonismo, esso riguarda paradossalmente più il mondo meloniano che la democrazia italiana, come si dice allarmisticamente. Nel senso che la destra da cui Giorgia Meloni proviene si è nutrita, soprattutto nella sua fase germinale, di una forte mistica comunitaria e di un senso assai sviluppato della fratellanza ideologica. Tra militanti per una causa non esistono gerarchie, ma consonanza spirituale: tutti stanno sullo stesso piano, avendo condiviso scelte e sacrifici. La decisione di accentrare ancora di più il partito intorno a sé farà perdere questo spirito? Un eccesso di leaderismo potrà incrinare lo spirito di gruppo, spingerla a un distacco crescente dalla propria base militante e a un eccesso di autoreferenzialità, come qualcuno paventa? Dipenderà, detto cinicamente, dal risultato del prossimo voto europeo. Il personalismo a sfondo plebiscitario funziona, e viene più facilmente perdonato ammesso sia una colpa, quando si vince. E i capi sono tali, in politica, solo se vincono o danno prova di volerlo fare.

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