Dama, una capanna e il suo Kenya lontano dai resort: «La mia casa adesso è questa»

Dama, una capanna e il suo Kenya lontano dai resort: «La mia casa adesso è questa»
di Alessandro Di Giacomo
Mercoledì 5 Febbraio 2014, 11:12 - Ultimo agg. 9 Febbraio, 20:19
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All’anagrafe italiana Dama Stefania Nicolosi, 54 anni, una piccola vulcanica siciliana di Catania. Nasce benestante, futuro apparentemente assicurato, eppure presto sente che la Sicilia e l’Italia le vanno strette. Davanti alla capanna di Dama all’alba il sole spunta fuori dall’orizzone dell’Oceano Indiano, illuminando la foce del fiume Sabaki e il lavoro dei pescatori Giriama che ritirano le reti approfittando della bassa marea.

«Dopo la scuola – ricorda - l’impegno nella Fgci, una collaborazione con il quotidiano della mia città La Sicilia e viaggi in India nell’Ashram di Sai Baba e nei campi profughi tibetani. Poi altre esperienze in comunità religiose italiane, infine un conflittuale ritorno in Sicilia». Non soddisfatta riparte per 5 anni lungo le rotte nautiche di tutto il mondo in barca col suo ex-compagno francese, ma «terminata la storia con lui sono rientrata in Italia, sinceramente controvoglia. Così subito ripartii per l’Africa centrale dopo aver letto che cercavano una hostess di lingua francese per i voli in mongolfiera sul parco del Masai Mara».

E così, dal 2003, Dama vive in Kenya, ma non in un resort. Dall’anno successivo, per una serie di motivazioni lunghe e travagliate, Dama risiede da sola in poco piu di una capanna in un villaggio di pescatori di etnia Giriama sull’estuario del fiume Sabaki, ad una decina di km a nord della Malindi dei casinò, delle ville, dei ristoranti e degli alberghi.

Andandola a trovare quello che colpisce subito è che sul Sabaki passa il ponte della Lamu Road, attraversato dalle auto dei turisti diretti –per esempio- a She Shale, la spiaggia dorata dove si pratica il kate-surf. Sotto quel ponte, invece, vive una numerosa e bella comunità prevalentemente di pescatori che stendono le reti in un fiume influenzato dalle maree dell’Oceano Indiano.

«Il terreno dove vivo - racconta Dama - lo acquistai dalla famiglia che mi accolse oltre dieci anni fa, guidata da un vecchio esperto di erbe medicinali». Per arrivarci occorre percorrere un sentiero che scende dal ponte lungo la riva Nord del fiume, dove è possibile vedere anche un piccolo branco di ippopotami.

«Quando mi insediai qui – racconta - mi presero per pazza. E’ pericoloso, mi dicevano, ed infatti i primi tempi non sono stati facili. Più volte di notte tentarono anche di forzare la mia porta»…ma quale porta? Dama vive sola in una casa di tronchi e paglia (comunque con un evidente tocco femminile) in un terreno nel nulla, senza recinzione seppure con un cancelletto decorato di giunchi, tutto senza nessuna barriera. Tira su l’acqua da un pozzo a leva manuale, di elettricità nemmeno a parlarne. Dorme a 6/7 metri dal suolo in una torretta di tronchi riparata solo dalle zanzariere. Ma ormai si sente tranquilla: «La sicurezza - sottolinea - qui non la fanno le guardie, ma i comportamente che si adottano. Se si è rispettosi della comunità, sarai rispettato a tua volta» ed infatti in questa terra bellissima le persone appaiono subito aperte e ospitali.

Dama, qual è l’entusiasmo che ti spinge ad un modello d vita che per noi europei dire spartano è poco?

«Sento di aver partecipato alla crescita di questo villaggio, in varia maniera. Anche per quanto riguarda la sicurezza, per esempio, che parte dal rispetto per gli altri e per i beni altrui. Oggi qui mi sento a casa, in una comunità operosa e tranquilla. E’ stato un processo lungo, scaturito da più fattori. Quando facevamo marmellate e miele con le donne di qui, col lavoro abbiamo dato vita ad un equilibrio di considerazione reciproca. Oggi produciamo polvere di baobab e qualche prodotto di artigianato. Le donne sono il motore di questa realtà, con loro sento di crescere anch’io».

Cosa pensi di chi, spesso stoicamente e con sacrifici personali, ha invece dato vita a orfanotrofi, scuole, punti sanitari, impegnandosi negli angoli più disagiati del pianeta?

«Sono tutte iniziative mirabili, ma io penso sia giusto incidere anche sui comportamenti. Condividere la quotidianità - sostiene con vigore - aiuta a scambiarsi idee semplici ma importanti come l’attenzione ai rifiuti, alla pulizia, al rispetto per gli animali, al territorio, allo sviluppo di energie ecocompatibili, a considerare il necessario piuttosto che il superfluo».

Va bene, ma chi vorrebbe vedere qualcosa di tutto ciò?

«Il mio impegno è impalpabile, ma continuo. Non per nulla mi hanno chiamata Dama, che qui sul Sabaki vuol dire operosa. Lavorare sull’integrazione, questo è il mio fine. Nel mio piccolo trovare un modo diverso di far incontrare differenti culture, senza che nessuna sovrasti l’altra. Personalmente mi trovo benissimo con gli africani, con i Giriama in particolare, che hanno una mentalità aperta, libera e tollerante e guardandosi intorno non si può non darle ragione, poiché appaiono tutti sereni e disponibili, di grande gentilezza».

Dama, scusa, ma chi te l’ha chiesto?

«Nessuno, ovvio. Anzi no, me stessa».

Tu collabori con una onlus e stai cercando di trasformare il tuo insediamento in un piccolo centro di accoglienza per favorire proprio l’incontro tra culture diverse. Tuttavia, in fondo, come sei arrivata potresti ripartire in qualunque momento, lasciare tutto il progetto…

«Il mio stile di vita è di non pormi domande sul domani. Semmai non dovessi sentirmi più a mio agio qui, vedrò il da farsi. In fondo, arrivai qui per aiutare me stessa in un periodo non facile. Non è egoismo, si può fare del bene solo se si è in pace con se stessi. Il successo della mia integrazione qui deriva dal fatto che non avevo alcun progetto».

E’ facile amare l’Africa e il Kenya, una terra bellissima, che resta dentro per sempre, un luogo capace di forgiare le persone.

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