Israele reagirà? E come? «Esistono varie gradazioni di una possibile risposta israeliana, dobbiamo sempre cercare di metterci nella mentalità mediorientale: se non rispondi, sembri debole. Se Israele, attaccato sul proprio territorio, non dimostra all’Iran che può colpire a sua volta, dà un segnale di vulnerabilità. È la logica tragica del Medio Oriente». Per l’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante dell’Italia presso la Nato, Tel Aviv potrebbe alla fine sferrare «un attacco simbolico, senza necessariamente provocare una escalation».
E se invece sceglierà di rispondere in modo massiccio?
«Ci sarà l’escalation. L’Iran a sua volta vorrà rispondere come ha già detto che farebbe, e gli Stati Uniti aiuterebbero sicuramente Israele nel caso in cui Tel Aviv fosse sottoposto a una ulteriore, pesante contro-risposta».
È il meccanismo della spirale. Potrebbe intervenire anche la Russia?
«Putin ha abbastanza da fare in Ucraina.
Gli analisti sostenevano che l’Iran non avrebbe attaccato Israele…
«Gli analisti spesso sbagliano e mi ci metto anch’io. In compenso, non ha sbagliato l’Intelligence americana, che aveva anticipato l’attacco e anche azzeccato i tempi, 24-48 ore rispetto a quando lo ha annunciato».
In passato Teheran aveva preferito azioni contro Israele attraverso le milizie proxy. Che cosa è cambiato questa volta?
«Il bombardamento dell’ambasciata d’Iran a Damasco è stato interpretato, o forse volutamente letto, da Teheran come un attacco sul suo territorio. E in base alla regola mediorientale per cui se mi dai tanto, devo darti tanto, ha ritenuto di dover rispondere dimostrando di poter colpire dal suo territorio, direttamente con mezzi iraniani e non per procura, quello di Israele».
Ma l’attacco è fallito?
«Dal punto di vista militare sì, perché non ha ottenuto risultati, ma per gli iraniani ha marcato il punto: noi possiamo colpire Israele, e con questa etichetta è venduto anche all’interno del Paese. Se poi qualche testa più ragionante a Teheran ci riflette, capisce di aver subito una sconfitta. Ci troviamo di fronte a un doppio successo di Israele, che ha dato prova di capacità difensiva e anche di tenuta delle alleanze politiche. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giordania hanno aiutato Israele a difendersi. Al tempo stesso, va detto che l’Iran ha capacità militari ben superiori a quelle che ha dispiegato l’altra notte. Però se lanci trecento droni e missili, ti aspetti di arrecare qualche danno. E questo non è successo».
C’è stata una rivincita della tecnologia rispetto alla sua sconfitta il 7 ottobre con Hamas?
«È una chiave di lettura. Israele ha capacità militari nettamente superiori a quelle iraniane. Ma questa è una guerra ibrida. E l’insuccesso dei missili iraniani non deve far dimenticare i risultati politici ottenuti con il 7 ottobre, se non altro quello di spaccare l’intesa che si stava preparando fra Arabia Saudita e Israele. Inoltre, oggi Teheran è paladina della causa palestinese nel mondo arabo, e ha costretto Israele a una guerra a Gaza che Tel Aviv non solo non sta vincendo, ma che sta creando due gravi conseguenze: una terribile crisi umanitaria per due milioni di palestinesi, e l’isolamento di Israele che è stato rotto proprio con l’attacco di ieri».
Adesso la palla è in campo israeliano?
«In Israele c’è un partito della rappresaglia che crede che l’Iran, attaccando direttamente, abbia attraversato una linea rossa e sia il momento di dare una botta a Teheran che da tempo si desiderava infliggere. È dal 1979 che gli Ayatollah minacciano fuoco e fiamme, ma l’Iran non aveva mai colpito in modo diretto. E c’è chi invece, a Tel Aviv e non solo, ritiene che Israele debba incassare il successo militare, difensivo e politico, e quindi sia meglio che non reagisca ulteriormente. Anche gli americani premono in questo senso, per evitare l’allargamento regionale del conflitto e perseguire invece la via del rinnovamento democratico. Gli israeliani potrebbero alla fine prendere tempo o scegliere un obiettivo intermedio».